IL NATALE DELLA MIA INFANZIA A CATTOLICA
Il Natale della mia infanzia è legato al sapore al gusto della preparazione degli addobbi, al diletto di sentirsi grande ogni anno di più quando in punta di piedi riuscivi a porre la stella cometa anche se immancabilmente storta. Al piacere di accendere le lucine che facevano corto circuito ed avevi la certezza che tuo padre era un supereroe perché con il nastro isolante curava quelle malate che non si accendevano più Per noi cuccioli d’uomo, il momento più bello era la notte della Vigilia, lo scambio dei regali e le buste sotto il piatto con le mille lire mentre le donne di casa lavavano, armate di parananza. Torri di stoviglie bofonchiando chissà che… Il camino reppava lapilli di un eroico coccio e sulla stufa a legna bollivano in un turbinio vulcanico di vapore e borbottii le carni scelte per il “lesso” del pranzo natalizio La preparazione delle libagioni iniziava a metà settimana ed era esclusivamente “cosa da donne”. Tre generazioni di femmine si sedevano intorno al vecchio tavolo della sala da pranzo, sul quale la nonna da piccola aiutava la sua mamma dalle mani callose ma velocissime nella fattura dei cappelletti. Nonna, mamma, zie e cugine, sopra il tavolo innevato di farina realizzavano questi piccoli miracoli di bontà, mentre il brodo impassibile bolliva appannando tutti i vetri sui quali disegnavamo faccine ridenti. Noi piccole femmine avevamo il compito di allineare su vassoi di cartone i ravioli, piccoli soldatini in fila pronti al gran tuffo in pentola per il pranzo natalizio. Qualcuno finiva di nascosto in bocca degustato in tutta la la sua squisita crudità. Gli unici a non gioire in questo cerimoniale rito di preparazione alla festa erano il fido cappone, gli scintillanti capitoni, gli starnazzanti volatili da cortile sacrificati dalle donne che li “conciavano per le leste” L effluvio che si rincorreva in quella grande stanza immersa nel grasso vapore tagliato dall’affumicato respiro del camino, copriva l’olezzo del cappone crudo bruciacchiato, annientato dal rassicurante e dolciastro aroma del brodo, sovrastato dal puro odor atavico della pasta che usciva magicamente dalle mani come magica carta velina. La sacralità della preparazione era seguita da racconti della storia della mia famiglia: sussurrati e mimati i più audaci, sbandierati anche a noi piccole i più leggendari. Storie di guerre senza Natale, di cibi che non c’erano e di dispense in povertà. In cucina prendevano forma le delizie che avrebbero sedotto i palati del resto del parentado, i maschi stavano all’osteria: zii, cugini, fratelli, padre e nonni con l’immancabile “borsalino” della festa. Il “Camparino” non era cosa da donne: quando rientravano, accoglievo saltellante il branco che salutando emanava vapori come il bollito e mi chiedevo se i nasi rossi erano per il fredde o per il colore vermiglio dell’aperitivo a noi vietato. Questo era il mio Natale, matriarcale, ridondante, infinito come l’abbraccio della mia nonna, troppo tanta per riuscire a congiungere le manine, che mi lasciava la farina sulla guancia, quando mi appoggiavo al grembiule. La cena della Vigilia e il pranzo del Natale sono sapore e fragranza indelebile della mia infanzia. Ho dimenticato qualche volto, ma se chiudo gli occhi nei gusti e nei rassicuranti odori prendono magicamente forma le persone che ho amato e che per tutta la vita gusterò come cibo migliore per i miei ricordi.
Tratto da Rimini Donna N°18Testo di Maria Luisa Bartolini